Dal 15 maggio è scattato per il 2015 il cosiddetto Fish Dependence Day, ovvero il giorno a partire dal quale l’Unione Europea diventa tecnicamente dipendente dalle importazioni per coprire il proprio fabbisogno di pesce. E per l’Italia la situazione è ancora più critica: il Fish Dependence Day 2015 è scattato il 18 aprile.
Fish Dependence Day al 15 maggio 2015 significa – in sostanza – che se consumassimo solo pesce pescato nei Paesi dell’Unione Europea questo pesce finirebbe il 15 maggio, e dal 15 maggio fino al 31 dicembre bisognerebbe mangiare esclusivamente pesce d’importazione. Dato che nei primi mesi dell’anno non consumiamo soltanto pesce europeo ovviamente il pesce europeo continua ad essere pescato e venduto fino alla fine dell’anno: “Fish Dependence Day” è un’espressione convenzionale che indica il giorno a partire dal quale – all’interno di un anno – un dato Paese o area geografica diventa tecnicamente dipendente dalle importazioni di pesce.
Se consideriamo non l’Unione Europea nel complesso ma l’Italia, il Fish Dependence Day 2015 scatta ancora prima: non al 15 maggio ma al 18 aprile. Il settore ittico italiano è dunque sempre più dipendente dalle importazioni: secondo i dati diffusi dalla Coldiretti nell’ambito di Slow Fish 2015 nel 1990 il pescato nostrano copriva il 50% dei consumi di pesce, mentre oggi siamo intorno al 30%. L’Italia continua ad essere un mercato importante, che garantisce il 13% del totale europeo dei consumi di pesce (pari a 1,27 milioni di tonnellate), ma la dipendenza dall’estero cresce e i problemi ecologici dei nostri mari (per troppi anni sovrasfruttati) e le conseguenti misure politiche e burocratiche si fanno inevitabilmente sentire sul comparto ittico italiano (ricordiamo, in particolare: il fermo pesca, la licenza a punti per la pesca, la riforma della PCP, le regole sempre più stringenti per la pesca dei molluschi bivalvi, l’aumento dei canoni demaniali marittimi per gli impianti di acquacoltura, i nuovi obblighi relativi al sistema satellitare per le barche da pesca).
Secondo i dati diffusi dalla Coldiretti nel 2014 sono stati importati in Italia oltre 731 milioni di chili di pesci, crostacei e molluschi, con un aumento del 4% rispetto al 2013. In questo contesto c’è un evidente pericolo per i consumatori, quello delle frodi e del falso Made in Italy. A Slow Fish 2015 la Coldiretti ha sintetizzato il problema in questi termini: “più di due pesci su tre consumati in Italia provengono dall’estero, con il rischio evidente che venga spacciato come Made in Italy pesce importato, anche perché al ristorante non è obbligatorio indicare la provenienza. Dal pangasio del Mekong venduto come cernia al filetto di brosme spacciato per baccalà, fino all’halibut o la lenguata senegalese commercializzati come sogliola, la frode è in agguato sui banchi di vendita delle pescherie (dove vige l’obbligo dell’etichetta d’origine) ma soprattutto al ristorante, dove la provenienza di quanto si porta in tavola non deve essere indicata. Tra i trucchi nel piatto più diffusi ci sono anche il polpo del Vietnam spacciato per nostrano, lo squalo smeriglio venduto come pesce spada, il pesce ghiaccio al posto del bianchetto, il pagro invece del dentice rosa o le vongole turche e i gamberetti targati Cina, Argentina o Vietnam, dove peraltro è permesso un trattamento con antibiotici che in Europa sono vietatissimi in quanto pericolosi per la salute”.
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