L’Italia è il primo produttore europeo di riso, ma la Crisi e la liberalizzazione delle importazioni dall’Asia stanno mettendo in ginocchio i produttori italiani: negli ultimi cinque anni in Italia è stata chiusa un’azienda agricola su cinque.
L’11 luglio migliaia di agricoltori e mondine sono scesi in piazza nelle città dei territori di produzione del riso (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Sardegna) per protestare contro una situazione che sta diventando insostenibile. Le proteste, coordinate dalla Coldiretti, sono proseguite il 15 luglio a Roma. Tra le aziende agricole italiane produttrici di riso, il 20% ha dovuto chiudere dall’inizio della Crisi ad oggi (dati Coldiretti), ma alla base di questa ecatombe non ci sono soltanto la Crisi e la drastica riduzione del potere d’acquisto delle famiglie italiane. L’elemento fondamentale al centro delle proteste dei risicoltori italiani è quello della liberalizzazione delle importazioni dall’Asia. Nell’ambito del nuovo regime speciale a favore dei Paesi meno avanzati (Pma) l’Unione Europea ha introdotto il cosiddetto Eba (“Everything But Arms”, ovvero “Tutto tranne le armi”), un’iniziativa legislativa partita nel 2001 e implementata negli anni seguenti che in sostanza abolisce del tutto i dazi della tariffa doganale comune per i prodotti che provengono dai Paesi meno avanzati, tranne armi e munizioni).
L’impatto dell’Eba nella filiera del riso è stato, ovviamente, quello di una crescita vertiginosa delle importazioni dai Paesi asiatici produttori (in particolare Cambogia e Myanmar-Birmania), con numeri impressionanti a partire dal 2009, quando (a partire dal primo settembre) è entrata in vigore la completa liberalizzazione tariffaria. Secondo i dati diffusi dalla Coldiretti le importazioni di riso dall’Asia in Europa sono cresciute tra il 2008 e il 2013 del 1783% (millesettecentoottantratre per cento), e nei soli primi tre mesi del 2014 le quantità di riso proveniente da Cambogia e Birmania sono salite del 754% rispetto ai primi tre mesi del 2013. Le conseguenze di questo boom delle importazioni di riso dall’Asia sono: il crollo della produzione italiana di riso (nel 2014 la superficie coltivata con riso di varietà indica è scesa del 21,6%, ed è diminuito drasticamente l’export di riso italiano); i forti rischi in termini di sicurezza alimentare (nei primi sei mesi del 2014 il sistema di allerta rapido europeo Rasff ha effettuato in media una notifica a settimana sul riso di provenienza asiatica per la presenza di pesticidi non autorizzati e per l’assenza di certificazioni sanitarie).
Per i produttori di riso italiani (e l’Italia è tutt’ora il primo produttore europeo di riso, con 216.000 ettari di coltivazioni e una filiera che dà lavoro 10.000 famiglie) la situazione è ormai ingestibile. Come nel caso della riduzione delle tariffe doganali per il Marocco e nel caso dell’accordo tra Ue e Cina sul reciproco riconoscimento dei prodotti tipici, abbiamo a che fare con una liberalizzazione che non tiene conto dell’assenza totale di reciprocità nelle regole e nei controlli: chi produce il riso in Cambogia e in Birmania non è vincolato in alcun modo ai requisiti qualitativi e agli standard in materia di sicurezza alimentare e di diritti dei lavoratori che ci sono in Europa, e tutto questo senza che ci sia l’obbligo di indicare in etichetta la provenienza del riso (favorendo quindi i produttori italiani disonesti che possono importare riso di scarsa qualità dall’Asia a bassissimo prezzo e rivenderlo con nome e marchio italiani in etichetta). Il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo ha chiarito il punto in questi termini, spiegando anche quali sono le richieste e le rivendicazioni dei produttori di riso che sono scesi nelle piazze per protestare: “si passa dallo sfruttamento in Asia alle speculazioni in Europa, dove il riso indica lavorato cambogiano arriva ad un prezzo riferito al grezzo inferiore ai 200 euro a tonnellata, pari a circa la metà di quanto costa produrlo in Italia nel rispetto delle norme sulla salute, sulla sicurezza alimentare e ambientale e nel rispetto dei diritti dei lavoratori. E il grande scandalo è che la produzione straniera può essere spacciata come nazionale non essendo obbligatorio indicare in etichetta l’origine nelle confezioni in vendita. Il riso made in Italy è una realtà da primato per qualità, tipicità e sostenibilità che va difesa introducendo l’obbligo di indicare in etichetta la provenienza del riso, diffondendo pubblicamente i nomi delle industrie che utilizzano riso straniero, applicando la clausola di salvaguarda nei confronti delle importazioni incontrollate, istituendo una unica borsa merci e riqualificando l’attività di promozione dell’Ente Nazionale Risi“.
(Luigi Torriani)
🙂 Bisogna tartassare con spot informativi in tv e su internet, la maggioranza dei consumatori è piuttosto attenta alla salute alimentare e si potrebbe farlo anche con la Cina puntando su controlli e sicurezza . I cinesi benestanti non si fidano dei loro prodotti e adorano il made in Italy.
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