Migliaia di agricoltori e allevatori provenienti da tutta Italia hanno partecipato mercoledì 4 dicembre alla “battaglia di Natale” organizzata dalla Coldiretti alla frontiera del Brennero, tra Italia e Austria. Un’imponente mobilitazione contro la piaga del falso Made in Italy nel settore agroalimentare.
Si parla spesso del problema dell’Italian Sounding (il falso Made in Italy sui mercati esteri), un fenomeno che fa perdere al nostro Paese 60 miliardi di fatturato all’anno e 300.000 posti di lavoro. Ma c’è un altro problema che sta diventando insostenibile ed è quello del falso Made in Italy in Italia. Una questione di cui abbiamo parlato più volte qui su Universofood (qui una sintesi; qui un caso emblematico, quello dell’olio di oliva), e che sta mettendo in ginocchio gli agricoltori e gli allevatori italiani che rispettano le regole.
Alla grande manifestazione di protesta del 4 dicembre al Brennero ha partecipato anche il ministro Nunzia De Girolamo (sempre più vicina alle posizioni della Coldiretti), e Confindustria ha definito la partecipazione del ministro “sconcertante”. Ma il problema del falso Made in Italy è un dato di fatto innegabile. D’altronde nel corso della manifestazione sono stati bloccati e aperti davanti ai carabinieri dei Nas alcuni tir, all’interno dei quali sono stati trovati latte polacco, cosce di prosciutto tedeschi e olandesi, cagliate tedesche, e altre materie prime che secondo la Coldiretti sono tutte destinate a essere utilizzate per confezionare prodotti da vendere poi come “Made in Italy”. Tra gli slogan e gli striscioni dei manifestanti, ricordiamo: “Il falso prosciutto italiano ha fatto perdere il 10% dei posti di lavoro”, “Una mozzarella su 4 è senza latte”, “Fuori i nomi di chi fa i formaggi con caseine e cagliate”, “Dove vanno a finire i miliardi di litri di latte che passano dal Brennero?”, “Da fare subito l’etichetta obbligatoria per frutta e per verdure trasformate, succhi di frutta, salumi e carne suina, formaggi e mozzarelle”, “Salviamo il vero prosciutto italiano”, “615 mila maiali di meno in Italia grazie alle importazioni alla diossina dalla Germania”, “Il falso made in Italy uccide l’Italia”.
L’entità della posta in gioco è sintetizzabile in questi dati diffusi dalla Coldiretti in occasione della mobilitazione al Brennero: nell’ultimo anno hanno chiuso 32.500 stalle e aziende agricole e si sono persi 36.000 in agricoltura e allevamento; l’Italia importa il 40 % del latte e della carne, il 50% del grano tenero (che serve per preparare il pane), il 40% del grano duro (che serve per preparare la pasta), il 20 % del mais e l’80% della soia; negli ultimi cinque anni, ovvero dall’inizio della Crisi ad oggi, le importazioni di prodotti alimentari sono aumentate aumentate in Italia del 22 % (in valore), con un aumento del 16% delle importazioni di carne di maiale, del 45% delle importazioni di cereali (che diventano poi pasta e riso “italiani”), del 26% per il latte (che diventa poi latte o formaggio “Made in Italy”), del 33% per frutta e verdura, del 59% per il pomodoro fresco.; complessivamente contiene materie prime straniere il 33% circa dei prodotti agroalimentari venduti in Italia (e anche esportati all’estero!) con il marchio Made in Italy.
Perché il fenomeno del falso Made in Italy ha assunto in Italia queste proporzioni? La risposta è semplice: si acquistano materie prime a basso costo (e di scarsa qualità) dall’estero, risparmiando così nei costi di produzione, e poi le si rivende ad alto prezzo sfruttando le enormi potenzialità del marchio Made in Italy. Il risultato è che le industrie alimentari ci guadagnano (non a caso Confindustria ha definito “sconcertante” la partecipazione del ministro Nunzia De Girolamo alle proteste del Brennero), mentre gli allevatori e gli agricoltori italiani sono alla fame. Nelle parole della Coldiretti (che sottolinea anche il problema della mancanza di trasparenza nelle etichette alimentari): “la presenza di ingredienti stranieri nei prodotti alimentari realizzati in Italia è dovuta alla ricerca sul mercato mondiale di materie prime di minor qualità pur di risparmiare, dal concentrato di pomodoro cinese all’olio di oliva tunisino, dal riso vietnamita al miele cinese, offerte spesso a prezzi troppo bassi per essere sinceri, che rischiano di avere un impatto sulla salute. In Italia arriva dall’estero un quantitativo di agrumi freschi pari al 14 per cento della produzione nazionale a cui si aggiungono oltre 300mila quintali di succhi concentrati che finiscono nelle bevande all’insaputa dei consumatori perché in etichetta viene indicato solo il luogo di confezionamento. La maggioranza del succo di arancia consumato in Europa, poi, proviene dal Brasile sotto forma di concentrato al quale viene aggiunta acqua una volta arrivato nello stabilimento di produzione, a differenza di quanto avviene per la spremuta. Nel pomodoro da industria l’Italia importa semilavorati industriali prevalentemente da Cina e Stati Uniti pari a circa il 20 per cento della propria produzione. Ad arrivare in Italia è soprattutto concentrato in fusti da oltre 200 chili che vengono svuotati per confezionare il pomodoro in barattoli e vasetti da distribuire al consumo nel nostro Paese e all’estero senza alcuna indicazione sulla reale provenienza in etichetta. Il risultato sono i bassi prezzi pagati agli agricoltori e il crollo del raccolto che nel 2013 è risultato essere il più scarso degli ultimi dieci anni. In Italia, inoltre, sono stati consumati 2,05 milioni di tonnellate di latte a lunga conservazione ma di questi solo mezzo milione è di provenienza italiana mentre il resto è stato semplicemente confezionato in Itala o addirittura e arrivato già confezionato, con un impatto negativo sul lavoro e sull’economia del paese. Ma ad essere importati sono anche semilavorati come le cagliate, polvere di latte, caseine e caseinati che vengono utilizzati per produrre all’insaputa del consumatore formaggi di fatto senza latte. Il falso Made in Italy colpisce anche i formaggi piu’ tipici con la crescita esponenziale delle importazioni di similgrana dall’estero (Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Estonia, Lettonia) per un quantitativo stimato in 83 milioni di chili che fanno concorrenza sleale a Grana Padano e Parmigiano Reggiano o Trentingrana ottenuti nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione. L’Italia è anche il piu’ grande importatore mondiale di olio di oliva nonostante una produzione nazionale di alta qualità che raggiunge quota 480mila tonnellate. Le importazioni di olio dell’Italia superano la produzione nazionale e sono rappresentate per il 30 per cento da prodotti ottenuti da procedimenti di estrazione non naturali (olio di sansa, olio lampante e olio raffinato) destinati alla lavorazione industriale in Italia. In pratica la qualità del nostro olio viene’“contaminata’ dalle importazioni e in media la metà dell’olio di oliva consumato in Italia proviene da olive straniere, ma l’etichetta di provenienza che per questo prodotto è obbligatoria risulta di fatto non leggibile perché scritta in caratteri minuscoli posizionati nel retro della bottiglia mentre si fa largo uso di immagini e nomi che richiamano all’italianità. Solo nell’ultimo anno sono scomparsi in Italia 615mila maiali ‘sfrattati’ dalle importazioni di carne dall’estero per realizzare falsi salumi italiani di bassa qualità, con il concreto rischio di estinzione per i prelibati prodotti della norcineria nazionale, dal culatello di Zibello alla coppa piacentina, dal prosciutto di San Daniele a quello di Parma. La chiusura forzata degli allevamenti è stata causata dall’impossibilità di coprire i costi di produzione per i bassi prezzi provocati dalle importazioni dall’estero di carne di bassa qualità per ottenere prosciutti da ‘spacciare’ come Made in Italy per la mancanza dell’obbligo di indicare in modo chiaro in etichetta la provenienza. In Italia nel 2012 sono state importate 57 milioni di cosce di maiali dall’estero destinate ad essere stagionate o cotte per essere servite come prosciutto italiano, a fronte di una produzione nazionale di 24,5 milioni. Gli allevatori della Coldiretti mettono sotto accusa anche gli insostenibili squilibri nella distribuzione del valore dalla stalla alla tavola: per ogni 100 euro spesi dai cittadini in salumi ben 48 euro restano in tasca alla distribuzione commerciale, 22,5 al trasformatore industriale, 11 al macellatore e solo 18,5 euro all’allevatore”.
(Luigi Torriani)