Il problema degli sprechi alimentari e della mancanza di una cultura antispreco a tavola è ben lontano dall’essere risolto, e gli ultimi dati Fao restano preoccupanti. Ma a causa della Crisi negli ultimi cinque anni gli sprechi alimentari degli italiani si sono ridotti di un quarto.
Secondo la Coldiretti tra il 2008 e il 2013 sono scesi del 25% gli sprechi degli italiani a tavola (gli avanzi gettati nella spazzatura), fermandosi a poco meno di 5 milioni di tonnellate all’anno. Un fenomeno che la stessa Coldiretti definisce “l’unico aspetto positivo della Crisi, che ha determinato una maggiore attenzione degli italiani alla spesa, ma anche alla preparazione in cucina e alla riutilizzazione degli avanzi”.
La situazione è comunque critica, ed è sintetizzata dall’ultimo Rapporto della Fao sugli sprechi alimentari (che non sono quelli a tavola, a valle della filiera, ma anche quelli a monte, nella fase produttiva, che costituiscono il 54& del totale degli sprechi) in questi termini: “ogni anno, il cibo che viene prodotto, ma non consumato, sperpera un volume di acqua pari al flusso annuo di un fiume come il Volga; utilizza 1,4 miliardi di ettari di terreno, quasi il 30% della superficie agricola mondiale, ed è responsabile della produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra. Oltre a questo impatto ambientale, le conseguenze economiche dirette di questi sprechi (esclusi pesci e frutti di mare), si aggirano intorno ai 750 miliardi di dollari l’anno“.
E attenzione:l’aumento della popolazione mondiale (e quindi della domanda di cibo) secondo la Fao richiederà entro il 2050 un incremento del 60% nella produzione alimentare. Uno sforzo che molto difficilmente sarebbe sostenibile dall’industria alimentare e che può ridursi soltanto ottimizzando la produzione i consumi. Il problema del contenimento degli sprechi alimentari è destinato quindi a diventare nei prossimi anni sempre più importante e sempre più urgente. Spiega il Rapporto Fao 2013 sugli sprechi alimentari: “alla base dell’alto livello di perdite alimentari nelle società opulente c’è il comportamento dei consumatori insieme alla mancanza di comunicazione lungo la catena di approvvigionamento. I consumatori non riescono a pianificare i propri acquisti, comprano più cibo di quel che serve, o reagiscono in modo eccessivo all’etichetta ‘da consumarsi entro’, mentre eccessivi standard di qualità ed estetici portano i rivenditori a respingere grandi quantità di cibo perfettamente commestibili. Nei paesi in via di sviluppo, le perdite avvengono principalmente nella fase post-raccolto e di magazzinaggio a causa delle limitate risorse finanziarie e strutturali nelle tecniche di raccolto, di stoccaggio e nelle infrastrutture di trasporto, insieme a condizioni climatiche favorevoli al deterioramento degli alimenti”.
Nel Rapporto Fao 2013 sugli sprechi alimentari si suggerisce alle aziende che operano nel settore agroalimentare di regalare – anzichè sprecare – il cibo ormai invendibile e scaduto (quando non pone ancora problemi di sicurezza alimentare), e di mettere sul mercato a prezzi più bassi, anziché distruggere, i prodotti imperfetti ma on dannosi per la salute umana. E nel Rapporto “Toolkit: Reducing the Food Wastage Footprint” la Fao suggerisce più in generale questa strada: le eccedenze alimentari andrebbero prima di tutto riutilizzate all’interno della catena alimentare umana (ricerca di mercati secondari, la donazione del cibo eccedente ai poveri e ai concittadini più vulnerabili); quando il cibo non è più idoneo al consumo umano, andrebbe usato per l’alimentazione del bestiame, risparmiando così delle risorse che sarebbero state altrimenti utilizzate per produrre i mangimi commerciali; se non è possibile nemmeno il riutilizzo per gli animali, le eccedenze alimentari andrebbero riciclate (riciclaggio dei sottoprodotti, decomposizione anaerobica, elaborazione dei composti, evitando le discariche, in cui il cibo che marcisce produce ulteriori gas serra).
(Luigi Torriani)