Nella crescita dell’export alimentare giocano un ruolo sempre più importante le esportazioni di cibi e bevande Made in Italy nei Paesi extra Ue, con un boom nella prima metà del 2013.
E’ nota la crescente dipendenza dell’agroalimentare italiano dall’export, che tiene in piedi un settore che altrimenti crollerebbe per via del continuo calo dei consumi interni (unica eccezione il biologico, che continua a crescere). Le esportazioni agroalimentari sono andate aumentando di anno in anno, con record a 30 miliardi di fatturato nel 2011, crescita ulteriore a 31 miliardi nel 2012, e un ottimo inizio del 2013.
La crescita dell’export alimentare poggia sempre di più sull’apertura di nuovi mercati al di fuori dell’Unione Europea, e in particolare sulla continua crescita dei mercati asiatici. Secondo i dati Istat (nelle elaborazioni di Coldiretti e Cia) le esportazioni di cibi e bevande italiani nei Paesi extra Ue nei primi cinque mesi del 2013 sono cresciute dell’11,6%, per un totale che arriva oggi a 1/3 del fatturato complessivo dell’export, e in Cina si parla – per la prima metà del 2013 – di un +65,3% nell’esportazione di Made in Italy alimentare fresco e +22,9% per il Made in Italy alimentare trasformato (vino, pasta, olio, formaggi). Con la speranza che per il vino – il prodotto più esportato – non si concretizzino le recenti minacce cinesi di nuovi dazi.
Oltre al caso della Cina e dei nuovi mercati asiatici, sono da segnalare il +33,8% dei vini italiani in Russia, e per spaghetti, rigatoni, tagliatelle e tortellini un +127% in Russia e un +61% negli Stati Uniti. Interessanti poi due dati: il +94,5% dell’export alimentare dal Lazio verso il Giappone nel primo semestre 2del 013, e nello stesso periodo il +121,4% dell’export alimentare della Liguria verso i paesi Opec.
Quando si parla di export alimentare verso extra Ue, resta però il problema – gravissimo – dell’Italian Sounding, che fa perdere al nostro Paese 60 miliardi all’anno (l’Italian Sounding è l’utilizzo di nomi, marchi e immagini in etichetta che richiamano all’italianità in un prodotto che non è italiano). Un problema che la Coldiretti sintetizza in questi termini: “nei diversi continenti sono in vendita inquietanti aberrazioni, dallo ‘Spicy thai pesto’ statunitense al ‘Parma salami’ del Messico, ma anche una curiosa ‘mortadela’ siciliana dal Brasile, un ‘salami calabrese’ prodotto in Canada, il ‘provolone’ del Wisconsin, gli ‘chapagetti’ prodotti in Corea. Le denominazioni Parmigiano Reggiano e Grana Padano sono le piu’ copiate nel mondo, con il Parmesan diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone, ma in vendita c’è anche il Parmesao in Brasile, il Regianito in Argentina, Reggiano e Parmesao in tutto il Sud America. Per non parlare del Romano, dell’Asiago e del Gorgonzola prodotti negli Stati Uniti dove si trovano anche il Chianti californiano e inquietanti imitazioni di soppressata calabrese, asiago e pomodori San Marzano ‘spacciate’ come italiane. E in alcuni casi sono i marchi storici ad essere ‘taroccati’, come nel caso della mortadella San Daniele e del prosciutto San Daniele prodotti in Canada. Bisogna combattere un inganno globale per i consumatori che causa danni economici e di immagine alla produzione italiana sul piano internazionale cercando un accordo sul commercio internazionale nel Wto per la tutela delle denominazioni dai falsi”.
(Luigi Torriani)