Kamut, patate Selenella, pomodori di Pachino, vini biodinamici, differenze anche enormi di prezzo e annata tra i vini, mozzarella di bufala, sashimi di tonno. Sono alcune delle mode e dei trend alimentari oggi più in voga che vengono analizzati (e dove necessario demitizzati) nell’ottimo libro “Le bugie nel carrello” del chimico Dario Bressanini (comasco, ricercatore all’Università dell’Insubria di Como, collaboratore de il Fatto Quotidiano, animatore del blog Scienza in cucina, già autore di “Pane e bugie” e “Ogm tra leggende e realtà”).
Una delle mode alimentari più dirompenti degli ultimi anni è il kamut. Soprattutto in Italia, che è il Paese massimo importatore di kamut al mondo, davanti alla Germania. Dai supermercati ai negozi specializzati ai ristoranti e pizzerie, ormai il pane, i cracker, i grissini le focacce e le pizze al kamut sono ovunque, e quasi ovunque le si pagano di più (anche il quadruplo) dei corrispondenti prodotti realizzati in versione tradizionale, rispetto ai quali i prodotti a base di kamut vanterebbero superiori proprietà nutritive e molteplici effetti benefici sulla salute. Forse non tutti sanno che Kamut è un marchio registrato nel 1989 (Kamut International) dall’americano Bob Quinn. I prodotti kamut sono prodotti realizzati con il khorasan (Triticum turanicum), che è un grano originario della regione turca dell’Anatolia e poi importato negli Stati Uniti. Chiunque e ovunque può coltivare Khorasan ma non può chiamarlo kamut perché il marchio è registrato, e quindi non conviene coltivarlo perché senza marchio non lo compra nessuno e ha rese più basse e minori capacità di adattamento rispetto ad altri tipi di grano. Soltanto nell’ambito della Kamut International si possono vendere prodotti con il nome kamut, e da alcuni anni a questa parte lo si fa con incrementi annui di fatturato incredibili. Dario Bressanini fa semplicemente notare due cose sulla moda del kamut: il kamut costa di più ma non ha alcuna superiorità dal punto di vista nutrizionale e sanitario rispetto agli altri tipi di frumento (Triticum durum, Triticum aestivum, Triticum dicoccum) con cui si realizzano abitualmente pane, grissini, focacce, cracker e pizze; il kamut che mangiamo proviene tutto dal Nord America, per cui non si capisce perché venga continuamente esaltato dai fautori del biologico, dell’ecosostenibile e del km zero.
Il libro di Bressanini, di cui consigliamo la lettura, oltre al kamut analizza con informazioni e argomentazioni illuminanti molti altri casi, e si propone come una breve visita guidata ai supermercati, intesi come “musei dell’alimentazione umana, dell’industria alimentare, dei prodotti dell’agricoltura, ma anche delle scienze applicate alla gastronomia, della chimica degli alimenti, delle tecniche del marketing, dell’estetica e della psicologia del packaging”.
Tra le altre cose Bressanini affronta la questione delle patate Selenella (le patate arricchite al selenio, pubblicizzatissime ma da noi sostanzialmente inutili perché la dieta dell’italiano medio contiene già dosi adeguate di selenio), il successo dei pomodori di Pachino (presentati come un vanto del Made in Italy ma in realtà introdotti in Sicilia da Israele nel 1989), il caso della Mortadella Suprema Fiorucci “Zero chimica, 100 per cento naturale” (che in realtà contiene nitrito di sodio come tutte le altre mortadelle, e deve contenerlo perché il nitrito di sodio – che al di sotto di certe dosi non determina alcun pericolo per la salute – ha una fondamentale funzione conservante e anti-botulismo), il caso della mozzarella di bufala (costa di più ed è buonissima, ma spesso – specie nelle pizze – non è di bufala al 100% e contiene percentuali talvolta anche alte di latte di vacca, e peraltro per la pizza è più adatta la mozzarella fiordilatte, perché la bufala è più acquosa e finisce per rammollire la pasta), la questione dei coloranti (quando ha senso e quando non ha senso l’aggiunta di coloranti in un prodotto, la controversa ipotesi del legame tra coloranti e bambini iperattivi), le differenze tra le uova (di tipo 0 biologiche, di tipo 1 da galline allevate all’aperto, di tipo 2 da galline allevate a terra, di tipo 3 da galline allevate in gabbia; nonostante molti pensino il contrario, le caratteristiche chimiche e nutrizionali dei quattro tipi di uova sono assolutamente analoghe), il problema della digeribilità del latte (e gli eccessi delle crociate contro il consumo di latte), la qualità del burro in Italia (perché il burro prodotto in Italia è spesso meno buono del burro prodotto in altri Paesi), i rischi legati al consumo di tonno (specie rara e sovrasfruttata, e pesce predatore e mediamente di grandi dimensioni, quindi spesso altamente contaminato dal mercurio nelle sue carni), la clonazione animale a scopi alimentare (al momento inefficiente e disfunzionale, ma molto probabilmente non comporta alcun rischio per il consumatore e per l’ambiente), il genetista agrario Nazareno Strampelli e la nascita nel 1923 del grano duro Senatore Cappelli (e gli studi sul miglioramento genetico del grano in Italia); i vini biodinamici (prodotti sulla base degli insegnamenti spesso scientificamente assai discutibili di Rudolf Steiner, di fatto privi di differenze significative dovute ai metodi biodinamici rispetto ai normali vini biologici, i quali peraltro presentano anche alcuni svantaggi rispetto ai vini non biologici), e le differenze di prezzo e annata tra i vini.
Naturalmente non possiamo riprendere qui tutte le informazioni e cogenti argomentazioni di Bressanini su tutti questi argomenti (e non vogliamo, chi vuole approfondire deve comprare il libro!). È interessante però soffermarsi su una delle questioni affrontate da Bressanini: le differenze anche enormi di prezzo tra i vini. I vini più costosi sono anche i più buoni? Bressanini riporta i risultati di alcuni studi che dovrebbero quantomeno far riflettere enologi, sommelier e produttori di vini (che magari non sono come il sommelier di Antonio Albanese, ma di certo introducono spesso giudizi, parole, gesti e concetti che ai più appaiono in larga parte bizzarri ed esoterici, o come minimo oscuri…). Il critico e degustatore di vini Robin Goldstein ha organizzato negli Stati Uniti 6175 degustazioni che hanno coinvolto 506 persone, chiamate ad assaggiare 523 vini diversi. I risultati sono stati piuttosto imbarazzanti, perché hanno mostrato addirittura una sia pur leggera correlazione negativa tra il prezzo del vino (ignoto all’assaggiatore) e il gradimento, nel senso che mediamente più i vini erano costosi meno erano graditi dagli assaggiatori, tranne in un 12% degli assaggiatori considerati “esperti” per aver frequentato in passato corsi di sommelier o perché lavoravano nell’industria del vino. In un altro esperimento agli assaggiatori venivano fatte provare delle coppie di vini, ognuna delle quali era costituita da uno stesso tipo di vino di due annate diverse, un’annata classificata dal critico ed esperto di vini Robert Parker come “media” o “insoddisfacente” e un’annata classificata come “eccellente” o “straordinaria”. Soltanto il 41% dei 241 partecipanti al test (appassionati di vini ma non esperti) era in grado di distinguere i due vini (se si tira a indovinare viene comunque il 33,3%…), e soltanto la metà dava la preferenza al vino considerato da Parker dell’annata migliore (per l’altra metà dei partecipante il vino di annata” media” o “insoddisfacente” era più buono del vino di annata “eccellente” o “straordinaria”). Ripetendo poi l’esperimento con 12 esperti di vini, si è scoperto che solo 4 esperti su 12 hanno distinto le due annate dei vini, e tra questi quattro uno ha preferito l’annata di qualità inferiore! Al che Bressanini scrive: è meglio “lasciare perdere le tabelle di annate. Se tuttavia il mercato ci crede, allora comprate il vino delle annate classificate deludenti”.
Bressanini cita poi un altro esperimento molto interessante, in cui ai partecipanti venivano fatti assaggiare cinque vini presentati come tutti diversi tra di loro e di cui veniva comunicato il prezzo, mentre due di questi vini erano lo stesso vino presentato però una volta come di basso prezzo e una volta come di alto prezzo. Tutti preferivano il vino più costoso, anche se era lo stesso identico vino! Otto settimane dopo, con gli stessi vini ma senza indicazioni di prezzo, i partecipanti non riscontravano particolari differenze e non esprimevano forti preferenze. Ma c’è di più. Durante l’esperimento i partecipanti erano monitorati da una macchina per la risonanza magnetica del cervello (che mostrava in tempo reale quali zone venivano attivate), e si è scoperto che bevendo il vino presentato come più costoso il cervello dell’assaggiatore rispondeva segnalando una sensazione di piacere maggiore rispetto a quando l’assaggiatore stava bevendo il vino meno costoso. La conclusione, paradossale, è che “questi esperimenti mostrano che il vino più costoso è effettivamente più buono”, non però per una qualità intrinseca del vino ma per un’elaborazione cerebrale. Per cui – conclude Bressanini – “la prossima volta che avete ospiti a cena, accennate casualmente al fatto che il vino che si apprestano a bere è molto costoso (anche se lo avete comprato a 5 euro al supermercato): lo apprezzeranno davvero molto di più!”.
(Luigi Torriani)