Soltanto nel 2012 l’Italia ha importato dalla Cina prodotti alimentari (specialmente pomodori, ortaggi, frutta conservata, aglio e legumi) per un valore di circa mezzo miliardo di euro (dati Coldiretti). Una situazione che pone seri problemi di concorrenza alle aziende italiane ma che ha anche – e soprattutto – gravi implicazioni dal punto di vista dei diritti umani.
L’export agroalimentare italiano in Cina è al momento meno della metà (in valore) rispetto all’import in Italia di prodotti alimentari cinesi (dati Coldiretti). È vero però che da alcuni anni la Cina sta diventando un nuovo mercato di sbocco fondamentale per i prodotti enogastronomici del Made in Italy (e più in generale per i prodotti agroalimentari europei), con numeri di crescita impressionanti specialmente per i nostri vini e spumanti.
Questo è talmente vero che l’Unione Europea ha siglato un accordo con la Cina che prevede che i firmatari si impegnino a riconoscere reciprocamente dieci dei rispettivi prodotti a denominazione di origine all’interno del proprio territorio, proteggendoli da tentativi di imitazione e contraffazione del marchio. In pratica la Ue riconosce 10 prodotti alimentari cinesi come Dop e Igp (qui l’elenco completo), e la Cina tutela all’interno del suo territorio dieci prodotti alimentari europei (qui l’elenco completo, per l’Italia ci sono il Grana Padano e il Prosciutto di Parma).
Già a proposito di questo accordo ci sono state molte polemiche da parte delle associazioni di categoria europee. Polemiche che si possono riassumere in questi termini: manca un vera reciprocità nelle regole e nei controlli. E cioè: i prodotti alimentari cinesi tutelati in Europa godono degli stessi marchi di qualità attribuiti alle eccellenze europee (Dop e Igp) ma seguono i requisiti qualitativi e i controlli cinesi, non quelli europei. Il problema è quella dell’asimmetria nelle regole e della concorrenza sleale, un problema di cui si è parlato di recente anche a proposito dell’accordo tra Unione Europea e Marocco sulle tariffe doganali (liberalizziamo il commercio agroalimentare con il Marocco ma intanto gli agricoltori marocchini sono sottoposti non solo a costi ma anche regole e standard decisamente meno stringenti – per usare un eufemismo – rispetto ai loro concorrenti europei).
Nel caso della Cina, rispetto al Marocco, c’è un’ulteriore aggravante: la questione dei Laogai. I Laogai (campi di “rieducazione attraverso il lavoro”) sono campi di lavoro istituiti da Mao nel 1950 sull’esempio dei gulag sovietici. In Cina ci sono tuttora oltre 1400 Laogai, dove milioni di cinesi detenuti (per reati minori o per dissidenza politica) vengono impiegati come manodopera a costo zero, con lavoro forzato fino a 18 ore al giorno, impiego della tortura, e gravissime condizioni di mancanza di igiene e denutrizione.
La Laogai Research Foundation denuncia da anni questa situazione e ha più volte segnalato come i Laogai siano anche ampiamente utilizzati per la coltivazione e la produzione di cibi e bevande sia per il mercato interno sia per l’esportazione. Nel frattempo guardando i dati si scopre che le importazioni di concentrato di pomodoro dalla Cina sono praticamente quadruplicate (+272%) negli ultimi dieci anni, mentre le importazioni di funghi dalla Cina sono cresciute del 317% in un anno. A parte il fatto che questi prodotti di provenienza cinese sono spesso spacciati per italiani ingannando i consumatori (si vedano per esempio i casi del pomodoro e del pesce), qui si va ben oltre la semplice concorrenza sleale e il semplice inganno del consumatore: qui si arriva ad avallare, nel silenzio generale, dei crimini contro l’umanità paragonabili ai lager nazisti e ai gulag sovietici.
(Luigi Torriani)
Pingback: Importazioni di pomodoro dalla Cina. +680% nell'ultimo anno