Il dato è storico perché va a invertire una tendenza che era in atto da quasi cinquant’anni, cioè dal Miracolo economico italiano in poi: per la prima volta diminuiscono i lavoratori stranieri impiegati in agricoltura. La Crisi e la crescente difficoltà a trovare lavoro (la disoccupazione giovanile nel nostro Paese sfiora ormai il 35%) stanno forse lentamente riportando gli italiani nei campi, a riempire spazi finora colmati dal massiccio (e indispensabile) impiego degli immigrati.
Gli immigrati in agricoltura sono indispensabili: nelle campagne italiane circa un lavoratore su dieci è straniero, e negli ultimi quindici anni gli immigrati impiegati in agricoltura sono praticamente quadruplicati, passando da 52.000 a oltre 197.000 unità (dati Istat). Ed è almeno dagli anni ’70 (la “scomparsa delle lucciole” di Pasolini) che il boom economico e la progressiva urbanizzazione (e imborghesimento) della società italiana ha portato l’italiano medio a relegare il lavoro dei campi nella sfera delle attività in qualche modo “disonorevoli”. Da qui un enorme spazio occupazionale che si è creato e che è stato colmato grazie ai crescenti flussi migratori verso il nostro Paese. D’altronde ancora all’inizio del 2012 la Coldiretti parlava della necessità di 35.000 nuovi lavoratori extracomunitari nei campi.
Ma forse qualcosa – complice la Crisi epocale che stiamo vivendo – sta lentamente incominciando a cambiare, e si cominciano a cogliere i primi segnali di questo cambiamento. Tuttora il lavoro straniero rappresenta il 23,06% del totale delle giornate lavorative dichiarate dalle aziende agricole italiane, ma secondo i dati Caritas – Coldiretti nel 2011 per la prima volta sono scesi sia il numero degli immigrati nei campi sia le giornate di lavoro agricolo degli immigrati, passate da 27.027.935 a 26.190.884 (confronto tra 2010 e 2011). Tutto questo mentre le assunzioni nel settore agricolo risultano in crescita (e potrebbero crescere ancora di più con la vendita dei terreni agricoli di proprietà dello Stato, ma l’iter è ancora bloccato). Incrociando i dati la conclusione è evidente: diminuiscono gli immigrati nei campi perché cresce il numero di italiani che torna a fare lavori agricoli.
Resta comunque tuttora indispensabile l’impiego di manodopera straniera nell’agricoltura italiana. I lavoratori immigrati impegnati in agricoltura hanno una età media di 36 anni e per il 71% sono di sesso maschile. Sono 172 le diverse le nazionalità rappresentate, anche se a prevalere sono nell’ordine Romania (113.543), India (24.823), Marocco (24.519), Albania (23.982), Polonia (22.601), Bulgaria (15.242), Tunisia (12.027), Slovacchia (11.551), Macedonia (10.254), Moldavia (5.422), Senegal (5.193) e Ucraina (4.756). Sono molti i distretti produttivi agroalimentari che vedono una fortissima e decisiva presenza di lavoratori stranieri, anche se oltre la metà (il 52,34%) si trova in sole 15 provincie, e in particolare a Bolzano 6,56%, Foggia 6,42%, Verona 5,49%, Trento 4,32%, Ragusa 3,89%, Latina 3,79%, Cuneo 3,41%, Cosenza 3,23%, Salerno 2,57%, Ravenna 2,54%, Bari 2,08%, Forlì-Cesena 2,06%, Ferrara 2,02%, Brescia 1,98%, Reggio Calabria 1,97%. Nelle stalle dove si munge il latte per il parmigiano Reggiano quasi un lavoratore su tre è indiano, in Abruzzo è elevata la presenza di pastori macedoni, e i lavoratori stranieri sono tuttora decisivi anche nella raccolta delle mele della Val di Non, nella produzione del prosciutto di Parma, della mozzarella di bufala o nella raccolta delle uve destinate al Brunello di Montalcino. Chiarisce a questo proposito la Coldiretti: “i lavoratori stranieri contribuiscono tuttora in modo strutturale e determinante all’economia agricola del Paese, e rappresentano una componente indispensabile per garantire i primati del Made in Italy alimentare nel mondo, su un territorio dove va garantita la legalità per combattere inquietanti fenomeni malavitosi che umiliano gli uomini e il proprio lavoro e gettano una ombra su un settore che ha scelto con decisione la strada dell’attenzione alla sicurezza alimentare e ambientale, al servizio del bene comune”.
(Luigi Torriani)