In Italia non esistono certezze, se non il fatto che fino all’ultimo non si può essere certi di nulla. Dono mesi di dibattiti, nel novembre del 2011 la vendita dei terreni agricoli dello Stato è stata approvata dal Parlamento. Questa volta sembrava fatta. E invece no. Il 30 giugno sono scaduti i termini per l’emanazione del decreto con l’elenco dei terreni demaniali da dismettere, e incredibilmente è ancora tutto fermo.
Al Forum internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione di Cernobbio, il 21 e 22 ottobre, 2011, la Coldiretti rilanciò a gran voce l’idea di vendere (precisamente: vendere e affittare) i terreni agricoli di proprietà dello Stato (338.000 ettari di terreno ad uso agricolo al momento del tutto inutilizzati), facendo dei conti ben precisi: da questa vendita lo Stato ricaverebbe 6,22 miliardi di euro. Una cifra enorme, frutto peraltro di un calcolo effettuato per difetto, escludendo “i boschi e le forme di gestione particolari come le comunanze in cui è più difficile imputare con certezza la proprietà al pubblico” (il dato generale parla comunque di 1,3 milioni di ettari di terreno di proprietà pubblica). Inoltre, spiegava Coldiretti, la vendita dei terreni agricoli di proprietà pubblica avrebbe avuto vantaggi non solo per i conti (disastrati) dello Stato italiano ma anche per la nostra agricoltura nel suo complesso, calmierando i prezzi dei terreni e stimolando la crescita, l’occupazione e la redditività delle imprese agricole italiane.
Tutte le reazioni politiche alla proposta sono state da subito favorevoli. L’allora ministro Saverio Romano si affrettò a dichiarare: “È una proposta che raccolgo immediatamente. La presenterò a Berlusconi”. E Maurizio Sacconi riteneva “doveroso aprire un tavolo di verifica” sulla questione, mentre il responsabile dell’area ricerca economica della Banca d’Italia Daniele Franco, nell’audizione alle commissioni Bilancio, sollecitò sulla necessità di “definire in tempi brevi un piano di dismissioni e di valorizzazione dei cespiti immobiliari pubblici, coerentemente con le dichiarazioni del Governo”.
Il risultato è arrivato a novembre 2011, quando l’idea della Coldiretti di vendere i terreni agricoli dello Stato è entrata nel maxiemendamento annesso alla legge di stabilità approvata dal Parlamento (ultimo atto del governo Berlusconi). Nel maxiemendamento stava scritto: entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge di stabilità, il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, con uno o più decreti da adottare d’intesa con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, individua i terreni di tipo agricolo, non utilizzabili per altre finalità istituzionali, di proprietà dello Stato o di proprietà degli enti pubblici nazionali, e ne dispone la vendita (che avverrà concretamente a cura dell’Agenzia del Demanio).
Entrata in vigore la legge di stabilità, i mesi sono passati invano, mentre la Coldiretti interveniva di nuovo dichiarando che dalla vendita dei terreni agricoli dello Stato potrebbero nascere fino a 43.000 nuovi posti di lavoro per i giovani (la legge già approvata, oltretutto, prevede incentivi all’imprenditorialità giovanile con il diritto di prelazione per i giovani imprenditori agricoli). Il 30 giugno 2012 sono scaduti ufficialmente i termini per l’emanazione del decreto con l’elenco dei terreni demaniali da dismettere, ed è ancora tutto fermo. Nel frattempo agli agricoltori mancano le terre, e negli ultimi dieci anni il nostro Paese ha perso l’8% della sua SAT (Superficie Totale) agraria e la superficie agricola utilizzata (SAU) è diminuita del 2,3% (quasi 300.000 ettari in meno).
Spiega Coldiretti: “ci auguriamo che questa legge non si aggiunga alla lunga lista delle norme italiane inapplicate, per l’importanza che riveste per garantire nuove risorse e per sostenere la competitività delle imprese agricole, soprattutto guidate dai giovani ai quali spetta il diritto di prelazione. La cessione di questi terreni toglierebbe allo Stato il compito improprio di coltivare la terra, renderebbe disponibili risorse per lo sviluppo, ma soprattutto avrebbe il vantaggio di calmierare il prezzo dei terreni, stimolare la crescita, l’occupazione e la redditività delle imprese agricole che rappresentano una leva competitiva determinante per la crescita del Paese. E’ certo che nessuno meglio degli imprenditori agricoli è in grado di valorizzare la terra e generare nuova occupazione. Dal ritorno delle terre pubbliche agli agricoltori che le coltivano possono nascere nuove imprese o, in alternativa, essere ampliate quelle esistenti come testimonia il fatto che la disponibilità di terra è il principale vincolo alla nascita di nuove imprese agricole e che il 50 per cento delle imprese agricole già esistenti condotte da giovani chiede la disponibilità di terra in affitto o acquisizione, secondo una indagine Coldiretti/Swg”.
(Luigi Torriani)