Quello della chiarezza (o meglio: della totale mancanza di chiarezza) delle etichette alimentari è un vecchio problema che è ben lungi dall’essere risolto dalle leggi italiani. E minore è la trasparenza delle indicazioni in etichetta, maggiori sono le truffe e le frodi ai danni dei consumatori. Vediamo il caso del pesce.
Uno dei casi più gravi è quello del pomodoro cinese. Dato che in Italia continua a non esserci alcun obbligo legale a indicare in etichetta la provenienza dei pomodori, una situazione sempre più frequente è questa: si importano pomodori dalla Cina, li si lavora e li si confeziona in Italia, infine si vende il prodotto con marchio italiano e simbologie tricolori in etichetta. Il cittadino va al supermercato, vede una passata di pomodoro che ha un nome italiano e che risulta confezionata in Italia, e ritiene – ovviamente – di acquistare un prodotto italiano. Invece la materia prima con cui è stato fatto quel prodotto (cioè il pomodoro) non è italiana ma cinese (quindi costa molto meno all’imprenditore italiano, ma spesso ha anche una qualità decisamente inferiore rispetto ai pomodori italiani).
Per altri prodotti la situazione cambia in parte ma resta preoccupante. Come nel caso dell’olio d’oliva, dove c’è l’obbligo di indicare la provenienza in etichetta ma in forma generica e generalissima (e spesso a caratteri minuscoli e seminascosti…). Quando l’olio è in parte o del tutto di importazione chi lo vende deve indicare in etichetta che si tratta di una “miscela di oli comunitari”, oppure – se parte dell’olio deriva da materia prima importata da Paesi extraeuropei – di “una miscela di oli comunitari e non comunitari”. Il risultato è che gran parte dell’olio di marca italiana che comprimiamo italiano in realtà non è affatto, e anche l’acquirente più scrupoloso che controlla attentamente l’intera etichetta non può comunque sapere da quale Paese precisamente provenga l’olio.
Il caso del pesce assomiglia a quello dell’olio. Quando si vendono pesci freschi o surgelati c’è infatti l’obbligo di indicare in etichetta esclusivamente la zona Fao di pesca, non il Paese in cui è stato pescato il pesce. Chi per esempio legga in etichetta (ammesso che le etichette le legge, e spesso non è così) “zona Fao 37”, anche se conosce – cosa assai rara – la classificazione e la ripartizione delle acque di tutto il mondo nelle diverse zone Fao, in ogni caso non ha la possibilità di sapere in quale Stato il pesce è stato pescato. “Zona Fao 37 significa infatti “Mediterraneo e Mar Nero”, per cui il pesce potrebbe essere essere stato pescato o allevato in Italia, ma anche in Tunisia, in Marocco, in Algeria, in Turchia, perfino in Bulgaria o in Georgia.
È di questi giorni, tuttavia, la notizia di una novità contenuta nel decreto Sviluppo approvato dal Consiglio dei Ministri. Da adesso in poi chi vende al dettaglio o somministra prodotti della pesca ha la possibilità (se il pescato è italiano) di utilizzare in etichetta la dicitura “prodotto italiano”. Una possibilità che riprende e sancisce a livello legislativo la recente idea del brand “Solopesceitaliano”. E che dovrebbe valorizzare il lavoro dei pescatori nostrani, in un periodo difficilissimo per il comparto ittico italiano, piegato dal caro gasolio, dall’introduzione dell’Iva al 10% sul carburante dei pescherecci, dalle liberalizzazioni del commercio con il Marocco, dalla precocità crescente del cosiddetto Fish dependence day, da regole sempre più severe e controlli sempre più frequenti.
Il problema è che con questo provvedimento il governo Monti non sancisce alcun obbligo. Si limita a dare la possibilità a chi vende pesce italiano di evidenziare in etichetta la provenienza nazionale del pesce. Spiega Tonino Giardini, responsabile nazionale del settore pesca di Coldiretti: “l’indicazione dell’origine per il pesce italiano è un provvedimento positivo ma non sufficiente ad assicurare al consumatore la possibilità di conoscere sempre l’origine di quanto porta in tavola o mangia al ristorante. Solo rendendo obbligatoria l’etichettatura d’origine, e non facoltativa, potrà essere garantita piena trasparenza rispetto a una situazione che vede oggi in Italia due piatti di pesce su tre provenienti dall’estero senza che nessuno lo sappia”.
Forse il maggiore problema riguarda i ristoranti, che non indicano in alcun modo la provenienza del pesce che cucinano (nemmeno la zona Fao nella quale è stato pescato, che va indicata obbligatoriamente soltanto in pescheria per pesce crudo fresco o surgelato, non se il pesce è servito o venduto già cucinato). Le vongole spesso provengono dalla Turchia, i gamberetti (che rappresentano da soli quasi la metà del pesce importato in Italia) sono in genere cinesi, argentini o vietnamiti (per tacere delle vere e proprie truffe, come il pangasio dal fiume Mekong venduto come cernia, l’halibut atlantico spacciato per sogliola o lo squalo smeriglio servito come pesce spada). A parte i pesci azzurri e in particolare le acciughe, che sono in genere italiane (sono il pesce più pescato in Italia, con 54.312 tonnellate), qualsiasi altro pesce mangiato al ristorante è con alta probabilità di importazione. Almeno fin quando il ristoratore non avrà alcun obbligo di indicare in etichetta la provenienza della materia prima che cucina (e fa pagare, spesso profumatamente).
(Luigi Torriani)