È un periodo drammatico per i pescatori italiani. Con il mar Mediterraneo che si sta sterilizzando, con le leggi – a partire dalla bozza Tremonti – sempre più severe nel limitare la pesca, il caro gasolio, l’introduzione dell’ Iva al 10% sul gasolio dei pescherecci, le polemiche sul novellame, i danni al comparto ittico derivanti dalla liberalizzazione del commercio con il Marocco, i continui sequestri e sanzioni (sia pure in diminuzione negli ultimi mesi), e le vendite di pesce che sono in calo. Nel frattempo un nuovo rapporto di Nef e Ocean 2012 parla chiaro: il fish dependence day – cioè il giorno in cui inizia la dipendenza di un Paese dal pesce di importazione – si è spostato quest’anno dal 30 aprile al 21 aprile. Cioè va sempre peggio.
Il cosiddetto “fish dependence day” è il giorno a partire dal quale un Paese è materialmente costretto a ricorrere alle importazioni per coprire il proprio fabbisogno di pesce. Ogni anno la New economics foundation (Nef) e Ocean 2012 pubblicano un rapporto nel quel indicano, per ogni Paese, il fish dependence day dell’anno in corso. Per il 2012 il fish dependence day italiano è scattato il 21 aprile, mentre nel 2011 era stato il 30 aprile. Il grado di autosufficienza ittica negli ultimi due anni è sceso in Italia dal 32,8% al 30,2%. Gli sbarchi di pesce sono diminuiti di 30.000 tonnellate, mentre la produzione di pesce di acquacoltura è aumentata ma non a sufficienza (+20.000 tonnellate). E nonostante il consumo interno di pesce sia in continua diminuzione il calo non è sufficientemente veloce rispetto al deficit di importazione. Il risultato è che ormai l’Italia è dipendente dal pesce extra-europeo per sostenere circa il 70% del suo consumo di pesce, mentre la media dei 27 Paesi europei è del 49% di pesce importato. Ma il problema non è solo italiano, è un problema generale a livello europeo, ed è sintetizzato da Nef e da Ocean 2012 i n questi 4 punti:
1) “Se l’Unione Europea consumasse solo pesce proveniente dalle proprie acque, le risorse finirebbero il 6 luglio, rendendola totalmente dipendente dal pesce importato da acque extra europee a partire dal 7 luglio, in base agli attuali livelli di consumo.
2) “Negli ultimi anni il Fish Dpendence Day per l’UE è arrivato con sempre più anticipo nel corso dell’anno, evidenziando un aumento dei livelli di dipendenza dal pesce importato”
3) “Per gli Stati Membri la data precisa nella quale inizia la dipendenza dalle importazioni di pesce è, per esempio: il 21 agosto per il Regno Unito; il 25 maggio per la Spagna; il 21 maggio per la Francia; il 21 aprile per l’Italia; il 20 aprile per la Germania; il 30 marzo per il Portogallo, il 20 aprile per la Germania”
4) “C’è una crescita dell’acquacoltura in Europa, ma per il momento non è riuscita a compensare la nostra crescente dipendenza dal pesce proveniente da altri mari”
Aniol Esteban, rappresentante di Nef e Ocean 2012, ha dichiarato: “l’Unione Europea ha una delle più grandi e ricche superfici di pesca del mondo. Ma non siamo riusciti a gestire in modo responsabile questa grande ricchezza, così per soddisfare la nostra voglia di pesce stiamo via via esportando la pesca eccessiva e il sovrasfruttamento delle risorse ittiche in altre parti del mondo. La pesca eccessiva rappresenta un danno per l’economia. Secondo Serena Maso, coordinatrice italiana di Ocean 2012 “questo Rapporto evidenzia chiaramente che se si vuole consumare pesce sostenibile è necessario che venga fatta pressione sui decisori politici che hanno la responsabilità di attivare subito politiche responsabili che garantiscano un futuro alla pesca e ai pesci. La Riforma della Politica Comune della Pesca dovrà quindi garantire la vitalità e la sostenibilità della pesca in Europa perché solo recuperando gli stock ittici sovrasfruttati possiamo bloccare questo trend disastroso che ci sta costando soldi e lavoro, proprio nel momento in cui ne abbiamo più bisogno”.
Coldiretti mette poi l’accento su un altro aspetto, quello del crescente rischio di frodi ai danni dei consumatori. In un contesto in cui le importazioni di pesce raggiungono livelli fino a pochi anni fa impensabili, il pesce cinese o vietnamita rischia di non essere più l’eccezione ma la regola. Aspettiamoci sempre di più di incappare – al ristorante, nelle pescherie e nei supermercati – in vongole turche, in gamberetti cinesi e in pangasio del Mekong, talvolta esplicitamente presentati come tali, talvolta ingannevolmente venduti come prodotti italiani. Questo il comunicato stampa di Coldiretti: “con più di due pesci su tre consumati in Italia che provengono dall’estero è evidente il rischio che venga spacciato come Made in Italy del pesce che in realtà è importato. Quindi nell’ effettuare acquisti il consiglio è di verificare sul bancone la presenza obbligatoria dell’etichetta, che per legge deve prevedere la zona di pesca, e scegliere la ‘zona Fao 37’, se si vuole acquistare prodotto pescato del Mediterraneo. Una precauzione che purtroppo non vale al ristorante al ristorante, dove invece la provenienza di quanto si porta in tavola non deve essere indicata obbligatoriamente e c’è il rischio che venga spacciato per italiano un prodotto importato. Le vongole possono anche provenire dalla Turchia, mentre i gamberetti, che rappresentano quasi la metà del pesce importato in Italia, sono spesso targati Cina, Argentina o Vietnam, ma anche il pangasio del Mekong venduto come cernia, l’halibut atlantico al posto delle sogliole o lo squalo smeriglio venduto come pesce spada. Da qui la richiesta di Coldiretti ImpresaPesca di estendere l’obbligo dell’etichetta d’origine, già vigente per il prodotto che si acquista nelle pescherie o direttamente dagli imprenditori, anche ai menu della ristorazione. Una vera e propria ‘carta del pesce‘, con l’indicazione di dove è stato pescato quanto si porta in tavola. Il settore della pesca vede impegnate 13.300 imbarcazioni, mentre la top-ten delle produzioni è guidata dalle acciughe (54.312 tonnellate), seguite da vongole, sardine, naselli, gamberi bianchi, seppie, pannocchie, triglie, pesce spada e sugarelli. Un patrimonio economico, sociale ed ambientale che è oggi a rischio con il solo l’aumento del prezzo del gasolio, rincarato del 25 per cento, che sta costando alle imprese di pesca duemila euro in più, mentre si fa sempre più grave la stretta creditizia delle banche. Il gasolio incide fino alla metà dei costi di produzione e l’aumento delle quotazioni fatto registrare negli ultimi dodici mesi ha aggravato una situazione resa già difficile dal contemporaneo calo dei prezzi pagati ai pescatori. La forbice tra prezzo all’origine e prezzo al consumo si è sempre più allargata. Mediamente su ogni euro del prezzo al consumo agli operatori di settore sono destinati solo 25 centesimi. Un ulteriore fattore di crisi è poi rappresentato dal problema dal cosiddetto ‘credit crunch’, la stretta creditizia da parte delle banche. La quasi totalità degli istituti negli ultimi mesi ha ristretto gli affidamenti alle imprese del settore o di contro, ove possibile, ha elevato le garanzie. In questo modo si stanno limitando gli investimenti nella pesca e nell’acquacoltura, togliendo la liquidità necessaria alle stesse operazioni di ordinaria gestione commerciale”.
(Luigi Torriani)