Non ci sono soltanto le proteste contro le liberalizzazioni e lo sciopero dei tir ad agitare le acque già decisamente mosse della politica economica italiana. I pescatori italiani (13.300 imbarcazioni) sono allo stremo. Piegati dal caro gasolio e in difficoltà di fronte alle nuove norme per la pesca imposte dall’Ue. E dopo la serrata dei mercati ittici e la violenta protesta davanti a Montecitorio, prosegue lo sciopero delle marinerie.
Martedì 24 gennaio è stata la volta della chiusura, per protesta, dei maggiori mercati ittici italiani. Mercoledì 25 gennaio c’è stata la durissima protesta dei pescatori davanti a Montecitorio, con lancio di petardi e bombe carta, cariche della polizia, e un bilancio di cinque feriti. Nel frattempo in molti porti italiani i pescherecci sono fermi, dalla Puglia all’alto Adriatico. Ma quali sono le ragioni essenziali della protesta?
Un primo problema riguarda le nuove norme europee per la pesca entrate in vigore a partire dal primo gennaio, e in particolare la cosiddetta licenza a punti. In pratica il pescatore che infrange le regole dell’Unione Europea sulla pesca va incontro per ogni infrazione ad una perdita di punti. Se si raggiunge la quota di 18 punti la licenza di pesca viene sospesa per due mesi, che salgono a quattro, otto e dodici mesi quando i punti arrivano rispettivamente a 36, 54 e 72. Se si arriva a 90 punti, la licenza di pesca viene ritirata. Un meccanismo analogo alla patente a punti delle automobili, che ha determinato l’ira dei pescatori italiani. Anche se le regole di cui si parla (su tutte: divieto di pescare novellame ed esemplari sottotaglia, divieto di pescare in prossimità delle coste, regolamentazione di reti e attrezzi) rispondono a esigenze di tipo ecologico (gli stock ittici delle acque europee, come spiega l’ultimo report di Ocean 2012, sono radicalmente sovrasfruttati) e in ultima istanza anche economico (senza nessun fermo pesca ormai l’Adriatico rischia di “sterilizzarsi” completamente).
Al di là della licenza a punti, il problema fondamentale della pesca in Italia è oggi costituito dal caro gasolio. Anzitutto perché è stata introdotta l’Iva al 10% sul gasolio dei pescherecci. Inoltre – e soprattutto – perché il prezzo del gasolio per i pescatori è schizzato all’improvviso dai 30 agli 80 centesimi al litro, e ha segnato un aumento del 25% rispetto a un anno fa. Un aumento che secondo i dati di Coldiretti ImpresaPesca costa duemila euro a ciascuna impresa ittica, con i costi del carburante che spesso superano ormai del 70% i costi generali di gestione del peschereccio. Questo proprio nell’anno i cui sono stati necessari due mesi continuativi di fermo pesca, in cui i prezzi all’origine sono in consistente calo, e in cui i fondi di aiuto alla pesca stanziati nel 2008 dall’allora ministro Zaia sono stati ripresi dalla contabilità dello Stato. Un ulteriore fattore di crisi della pesca italiana è poi il cosiddetto credit crunch, la stretta creditizia da parte delle banche. Spiega Coldiretti: “la quasi totalità degli istituti negli ultimi mesi ha ristretto gli affidamenti alle imprese del settore o di contro, ove possibile, ha elevato le garanzie. In questo modo si stanno limitando gli investimenti nella pesca e nell’acquacoltura, si sta togliendo la liquidità necessaria alle stesse operazioni di ordinaria gestione commerciale. Appare fondamentale, nel breve, aprire un tavolo per affrontare l’emergenza a livello nazionale, per proporre idee e azioni concrete tali da intervenire quali ammortizzatori utili alle problematiche del credito e della carenza di liquidità determinata dall’aumento dei costi di gestione e anche dagli adempimenti comunitari che costringono le imprese ad aggravare ulteriormente i loro bilanci con esposizioni temporanee assai pesanti”.
(Luigi Torriani)