Davvero la fantasia umana non ha limiti. Soprattutto in tempi di crisi, quando occorre ingegnarsi per evitare il più possibile gli sprechi. Ma la trovata del governo britannico – che ha prolungato i termini di scadenza degli alimenti – sta suscitando una valanga di polemiche in tutta Europa. Fin dove ci si può spingere per contenere le diseconomie della filiera alimentare?
La decisione del governo britannico è semplice: allungare i tempi di scadenza riportati sugli imballaggi alimentari sostituendo la dicitura sell by (“vendere entro”) con la più generica e rassicurante best by (“meglio entro”). Chiarissime sono anche le intenzioni: ridurre la quota dei prodotti scaduti e quindi invenduti.
Una trovata da occultamento di polvere sotto il tappeto che sembra migliorare le carte in tavola semplicemente rinominando le carte stesse, cambiando le regole del gioco, ritarando al ribasso gli indicatori. Una trovata che – nonostante le rassicurazioni del governo britannico sul tema della salute dei consumatori – ha destato molte perplessità per evidenti problemi di sicurezza alimentare. Prevenedo la possibilità che a qualcuno possa venire l’idea di importare la trovata inglese anche nel nostro Paese, la Coldiretti ha già messo le mani avanti con un comunicato stampa. Nel quale – testualmente – dichiara: “la crisi non deve essere l’alibi per mantenere sul mercato prodotti alimentari invecchiati che mettono a rischio la salute, giocando sulla data di scadenza. (…) La sicurezza alimentare è una dei principali preoccupazioni dei consumatori al momento dell’acquisto e gli italiani si tutelano proprio nel 90 per cento dei casi attraverso la lettura della data di scadenza, secondo un sondaggio Ipr marketing. La necessità di ridurre gli sprechi che interessano in Italia circa il 30 per cento dei prodotti acquistati per un totale di circa dieci milioni di tonnellate non deve significare maggiori rischi per la salute”.
In effetti quello degli sprechi di prodotti scaduti è uno dei maggiori problemi economici del comparto agroalimentare. Quando i negozianti esercitano il diritto di resa su articoli non deperibili, i fornitori possono riclicare e reimmettere in commercio questi beni. Se per esempio una libreria rende al grossista o al distributore dei titoli che non ha venduto, il grossista può riutilizzarli in caso di richiesta da parte di altre librerie, se sono vecchie edizioni che stanno uscendo di catalogo può inserirle nell’ambito dei remainders e dei libri a metà prezzo, se sono particolarmente usurati o in cattivo stato può comunque immetterli nel comparto dell’usato. Tutto questo comporta naturalmente dei costi, ma relativamente contenuti. Ben diversa è la situazione quando si ha a che fare con la resa di beni deperibili, quali cibi e bevande. In questo caso parliamo di articoli che hanno una data di scadenza e che dopo la scadenza perdono totalmente di valore. Quando il negoziante li rende, non essendo riuscito a venderli entro la data di scadenza, il fornitore si ritrova con delle scorte di invenduto che sono irrecuperabili e che costituiscono al 100% uno spreco. Questo è anche il motivo per cui non è raro che i Nas scovino frodi da parte di grossiti alimentari, che rietichettano alimenti scaduti per smerciarli di nuovo. Per esempio recentemente a Milano sono state sequestrate tre tonnellate di pesce congelato scaduto che era stato rietichettato e che era pronto per essere distribuito di nuovo agli esercizi commerciali della Lombardia e delle regioni circostanti.
Nella filiera agroalimentare, tuttavia, gli sprechi non sono soltanto a valle, ma anche a monte. Per esempio secondo le stime della Coldiretti si arriva al 25% di frutta e verdura che rischia di finire nella spazzatura per eccessiva maturazione nel percorso dal campo alla tavola ma anche – spesso – perché è lasciata sul campo non essendo più conveniente raccoglierla. I prodotti agroalimentari non raccolti nel loro complesso determinano lo spreco di 12,6 miliardi di metri cubi di acqua all’anno (dati 2010). Poi ci sono gli sprechi delle famiglie italiane, che detengono il primato europeo dei consumi idrici domestici (78 metri cubi all’anno per abitante, dati Eurostat) e che sprecano mediamente il 17% dei prodotti ortofrutticoli acquistati, il 15% di pesce, il 28% di pasta e pane, il 29% di uova, il 30% di carne e il 32% di latticini, a causa di fattori quali gli acquisti in eccesso, le offerte speciali acquistate in eccedenza, i prodotti acquistati come novità ma ritenuti non soddisfacenti e i prodotti acquistati ma rivelatisi poi del tutto inutili (dati dal “Libro nero dello spreco in Italia”).
In particolare il passaggio dal campo alla tavola è cruciale per un lavoro di contenimento degli sprechi alimentari che non vada a pregiudicare il principio inderogabile della sicurezza alimentare. In questo senso la Coldiretti conclude: ”la necessità di ridurre gli sprechi che interessano in Italia circa il 30 per cento dei prodotti acquistati (per un totale di circa dieci milioni di tonnellate) non deve però significare maggiori rischi per la salute; occorre piuttosto lavorare sulle perdite di prodotto che si verificano nel passaggio degli alimenti dal campo alla tavola”.
(Luigi Torriani)